The attic is not haunting your head – your head is haunting the attic.
La civetta cieca di Sadeq Hedayat (Carbonio Editore) è dove l’immaginazione orientale incontra l’occidente, nelle sua manifestazioni surreali e grottesche; la storia del pittore, poi scrittore, protagonista della novella, che sembra un labirinto ma in realtà è un gioco ben costruito, che esso possa essere interpretato come colpe specchiate o possibili sogni o reincarnazioni maledette, mette in scena i capisaldi dell’orrore e la dimostrazione che sì, l’agente infestante è la fuori, ma noi stessi ne siamo un sintomo e che stare sulla soglia dell’impossibile crea copie, scenari più pericolosi di un qualsiasi territorio completamente infestato.
Il tempo e lo spazio che vengono annullati e implodono in un’abitazione, i personaggi che dimostrano di essere nient’altro che simulacri, l’utilizzo di mito e simbologia per dimostrare che è possibile creare dei paletti, provare a mettere in ordine la realtà, ma l’impossibile incombe sull’uomo.

Hedayat (1903-1951) nato a Teheran ed emigrato in Europa durante la dittatura di Reza Shah Pahlavi, si rifugia nella letteratura e in particolare nelle idee di Omar Khayyam; scetticismo, infelicità, il bisogno di infrangere i tabù e l’utilizzo del folklore: cosa significa cercare il senso dell’esistenza, sono elementi che hanno palesemente influenzato la scrittura de La civetta cieca.
Ciò che avviene nella novella getta il lettore nel labirinto perché è palese fin dalle prime pagine che nella vita del protagonista cose sinistre si stanno muovendo alle sue spalle, ma allo stesso modo tutto può apparire chiarissimo perché è proprio il protagonista a spostare su di sé ciò che accade dietro il velo dell’impossibile.
Possiamo dividere La civetta cieca in quattro parti: un prologo,un epilogo e le due parti centrali ed entrambe hanno la consistenza di un sogno.
Nella prima parte il protagonista, un pittore di astucci in legno, un giorno mentre va a prendere una vecchia bottiglia di vino pregiato che ha ereditato, per condividerla con uno zio che è passato a trovarlo, ha una visione: una fessura si apre nel muro e riesce a scorgere poco lontano dalla sua casa la scena che lui stesso costantemente raffigura sugli astucci. Una bellissima ragazza, “un angelo del cielo”, si allunga verso un vecchio seduto sotto un cipresso, offrendogli un fiore.
L’immagine resta impressa nella retina del pittore che non trova pace fino a che la ragazza della sua visione non passa a visitarlo. Ma è silenziosa, distante, si addormenta e il pittore inizia a dipingerne i tratti, senza riuscirvi a causa del suo aspetto ultraterreno. Le offre il vino e, dopo pochi secondi, si accorge che la ragazza è morta. Riaprirà gli occhi per un solo secondo ed è in quel momento che riesce a raffigurare il suo sguardo.
L’uomo fa a pezzi la donna e la seppellisce con l’aiuto di un becchino ghignante, un’altra figura uscita da un sogno, che gli regala una brocca su cui è dipinto lo stesso sguardo che lui ha messo su carta.
Sprofondando sempre di più in una spirale di ossessione e angoscia, dopo una pesante dose d’oppio, il pittore si addormenta.
Al suo risveglio l’ambiente è mutato e il lettore muove i suoi primi passi nella seconda parte.
Il pittore è diventato uno scrittore in preda a una follia che lo tiene recluso in casa, in balia di una Tata e una moglie che sembra tradirlo costantemente, che lui chiama Sgualdrina.
I sogni celano il reale ma i misteri e i fumi dell’oppio non cancellano alcuni elementi costanti della narrazione.
Prima di tutto i personaggi; artista (pittore e poi scrittore), donna eterea (ragazza e poi moglie), vecchio orripilante (becchino e poi vecchio rigattiere che diventa amante della moglie) sono ruoli che lasciano che i sogni comunichino tra loro, che la realtà ammorbata resti tale.
Ma, e questo sta a forse a dimostrare che è la materia che resta sempre la stessa, non l’uomo, ma le cose rigide e vuote, alcuni oggetti sono invariati e cristallizati in entrambi le parti, anche se svolgono funzioni diverse: il vino, il vaso, l’oppio.
Oltre questo rinnovo delle personalità stanno infatti questi elementi, che veicolano i desideri, i ricordi e le colpe dei personaggi e che dimostrano che tutto ciò che essi desiderano, ricordano e soffrono non ha alcun valore. Questi oggetti sembrano essere piuttosto avere valore per la storia stessa: la trasformazione, il sacrificio, la copia, sono elementi che si ripetono ossessivamente ne La civetta cieca. Il vino sembra essere avere addirittura una funzione rituale: nella prima parte innesca la visione, nella seconda resta un oggetto passivo ma è solo lì che ne comprendiamo il significato e il mistero che la sua storia cela.
La brocca è l’oggetto che passa di mano da un sogno all’altro, il tentativo di comunicare e la dimostrazione di come l’arte possa ripresentarsi in diverse forme.
Questi oggetti restano tali, materia appunto, elementi fisici che il palcoscenico folle celato dalla quotidianità infetta. I personaggi invece sono tutti quanti simulacri e qui sta l’orrore che Hedayat sembra voler dimostrare: dov’è l’originale? Ma soprattutto, ha senso cercarlo?
La coscienza, nella forma di un’ossessione e di una continua alienazione, crea un mondo, un ambiente che a sua volta influisce su quella coscienza, ne smuove i ricordi, solleva nuove turbe e nevrosi, e così si crea un altro mondo, e quando uno di essi si rompe la crepa è visibile su tutti quanti, in un gioco di specchi. In tutto questo si è terribilmente soli: l’artista, che sia pittore o scrittore, è già refrattario alle regole, alla società, quasi tutti gli sono invisi o, nel migliore dei casi indifferenti.
Le figure femminili in particolare mandano in cortocircuito il buon senso del protagonista; non riesce ad agire davvero, e quando lo fa è completamente in preda alla nevrosi. I suoi sentimenti sono malati, danneggiati.
È costantemente alla ricerca di qualcosa e quegli oggetti fisici gli ricordano che il mondo esiste. Così, a causa dell’ossessione, della ricerca, ha inizio la metamorfosi, che non si esaurisce mai; è un ciclo di colpe eterno.
Tutti sono delle copie, il protagonista stesso lo è, nessuna di esse ha davvero valore, ma tutte per lui hanno un significato. Il concetto della copia, del doppelganger, della creazione di un eggregora, ha persino una narrazione mitica all’interno de La civetta cieca, quando scopriamo che lo scrittore non sa davvero chi sia suo padre: due gemelli si innamorano di una danzatrice sacra, lei, una volta scoperto di essere stata ingannata obbliga i due a sottoporsi alla prova del serpente Naga. Solo uno ne esce vivo, ma ormai impazzito e vecchissimo (di nuovo il vecchio ghignante!), ma nessuno sa dire chi sia dei due. E, di nuovo, ha senso scoprirlo?
L’ossessione, il grottesco, il reale che stimola e crea orrore, riportano ad altre infestazioni, dove tutte, pessimisticamente ovvio, dimostrano che niente ha senso e che scavare troppo profondamente dietro le ombre delle ombre non porta a niente di buono.
“[…] e persino il cielo di primavera e i fiori d’estate saranno d’ora in poi un veleno.”
Il richiamo di Chtulhu, in Tutti i racconti, H.P. Lovecraft (Mondadori)
“[…] un evento che mi avvelenerà la vita fino in fondo, fino al giorno dell’eternità, fino a quel territorio che è al di là dell’intelletto e della comprensione umana.”
La civetta cieca, Sadeq Hedayat (Carbonio Editore)
Le parole di Thurston potrebbero benissimo essere quelle dell’artista, che alla fine di uno qualsiasi dei suoi sogni, cicli o follie, non trova che dolore o, letteralmente veleno.
Ma in Hedayat la comprensione causata dall’esperienza del perturbante non scioglie comunque la matassa. La comprensione può portare alla follia, certo, ma in Hedayat la follia viene costantemente rievocata da sé, dal protagonista, e se anche questo lo la cerca alla fine è invitato a farne parte.
Puoi essere chiunque, ma non c’è via di uscita; il paradosso delle identità più simile, e in egual modo doloroso, è ne L’inquilino del terzo piano di Roland Topor, romanzo dove il perturbante si nasconde sotto le macchinazioni psicologiche, e la mancata via di uscita da un ciclo impossibile infesta un poveretto che si trasferisce in un appartamento appartenuto a una suicida.
“In quale preciso istante un individuo cessa di essere la persona che egli – e chiunque altro – pensa di essere?”
L’inquilino del terzo piano, Roland Topor (Bompiani)
“Sono io un individuo autonomo? Non lo so. Ma quando mi sono guardato allo specchio poco fa non mi sono riconosciuto.”
La civetta cieca, Sadeq Hedayat (Carbonio Editore)
Come ne La civetta cieca ogni scelta porta più vicino all’errore, all’incubo.
Cercare la verità non è una cosa naturale, non è una cosa buona: quando il quotidiano viene profanato dall’irreale la cosa più sensata da fare è mettersi buoni in un angolo, non certo andare in cerca di spiegazioni, come fa lo scrittore, o mettersi a investigare. Sciogliere i nodi non è possibile.
“Eppure Nathanael aveva avuto ragione a scrivere all’amico Lothar che la persona di Coppola, il disgustoso venditore di barometri, aveva prodotto un effetto davvero malefico sulla sua vita. Tutti se ne accorsero, fin dai primi giorni si notò che la sua indole era parecchio cambiata. Si lasciava andare a cupe fantasticherie, assumendo talora atteggiamenti così strani che nessuno lo riconosceva più.”
L’uomo della sabbia, in Notturni, E.T.A. Hoffmann (L’Orma)
“Queste immagini minacciose prive di forma, questi pensieri, facevano capolino ovunque: in un angolo della stanza, dietro la tenda, accanto alla porta, vicino alla finestra. E proprio vicino alla finestra stava seduta una figura spaventosa, immobile”
La civetta cieca, Sadeq Hedayat (Carbonio Editore)
Una volta terminata La civetta cieca anche il lettore ne vuole trovare un senso.
Le leggende, la superstizione e i miti plasmano e indirizzano il soprannaturale, ma è la semi consapevolezza del narratore, dell’artista, ciò che il lettore deve seguire, per scoprire che restando sulla soglia senza mai davvero varcarla si resta intrappolati in un orrore ciclico.
Unire gli immaginari, scavare dentro i sogni, dimostrare che quel che resta se non infestato e ripetuto è soltanto artificiale.
È per questo che alla fine Hedayat è così contemporaneo e la sua è una novella horror eccellente.
| La civetta cieca, Sadeq Hedayat (traduzione di Anna Vanzan), 135 pagine, Carbonio Editore
Carbonio Editore
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